Mercanti (pt.1)
Un ronzio satinato mi svegliò nella serra dove mi ero addormentato, mi tranquillizzava riposare vicino alle piantine di pomodori che crescevano a velocità impercettibile e silenziosa. Le prime polveri dorate frusciavano contro il vetro dell’oblò sei al sorgere dell’alba sbiadita. Le dune arrotondate mutavano forma con la stessa rapidità dell’umore di Alkasta. Che chissà dov’era. Senza essere preannunciata la cornucopia del rettore Preemo risuonò solenne in ogni stanza dell’acquario. Invasione, pericolo generico, matrimonio o mercanti, queste le possibili cause. Non si vedevano nostri simili da prima che io nascessi e non era in previsione nessuna cerimonia interna, quindi la conclusione mi fece balzare d’istinto verso l’oblò. La massa indistinta dei cumuli flagellata dalla bufera perenne si scuriva in un punto a sud-ovest. Non c’erano più dubbi. Corsi senza altri pensieri per corridoi e scale fino alla stanza del rettore. Lo trovai alla sua scrivania mentre tra torri di carte da archiviare divinava il futuro nei resti della colazione appena terminata. Senza che potessi anticiparlo mi disse sbrigativo:
“Vai a cercare Chicopì. Devi andare tu, adesso. E bel pigiama.”
E’ curiosa la sensazione di parole già dette, ti porta contemporaneamente in due punti distinti del tempo nascondendo gli indizi per correlare le due estremità. Corsi indietro per scale e corridoi e Chicopì mi sollevò dalla questione di doverlo trovare.
“Ma bella storia oh!”, mi sorrise.
Non pensavo l’avrei visto rasserenato così in fretta. Ci vestimmo a vicenda nella camera a pressurizzazione adiabatica con gli ultimi due sigilloni rimasti. Ci guardammo negli occhi, come previsto dalla procedura. Poi Chicopì spinse col palmo aperto l’interruttore della porta ermetica, che aprendosi smise momentaneamente di esserlo.
Ogni passo nella vacua melassa fumosa appesantiva infinitamente i nostri baricentri instabili, ma la macchia nera all’orizzonte cominciava ad assumere contorni riconducibili all’opera dell’uomo e ci instillava l’energia necessaria a proseguire. L’ocra turbinante recava un’ombra mobile. Un uomo imponente fermo sulle gambe fissate a un piedistallo cubico si dimenava convulso reggendo qualcosa. Sembrava in preda a spasmi di dolori atroci, si piegava in avanti, poi slanciava la schiena indietro e la roteava attorno al bacino fino a ricurvarsi avanti. Ad ogni nostro passo la figura acquistava definizione, e potemmo distinguere via via le guance paonazze pronte ad esplodere e la curva dorata dello strumento che stringeva fra le mani. Era Mor Deglia, il mitologico suonatore di trombetta otturata, abitatore dei sogni proibiti delle donne che ancora respiravano. Si diceva fosse suo il suono della tempesta d'aria calda che attaccava gli acquari, sua la disperazione sonora che setacciava senza tregua i cunicoli uditivi nelle nostre notti. Infine si manifestò la prima zampa tridattila dell’imponente cavalcatura di Trimegistotele, capo apodittico dei mercanti:
“Siate benvenuti e gonfi di danari e vanità, oh maledetti abitanti della terra. Vi offriamo tutto ciò che conosciamo e lo svago di scoprirlo, finchè l’aria dei vostri serbatoi non si esaurisce. Per un equo prezzo da contrattare.”