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Platano

Gli occhi si aprirono all’unisono come due ninfee nere galleggianti sul volto torbido. I neurotrasmettitori eccitati diffusero nel suo corpo la sensazione che fosse tardi per qualcosa con la frenesia pettegola di una notizia scomoda fra paesani in piazza. Avrebbe voluto richiudere gli occhi, all’unisono, e riposare ancora qualche ora. Ma ormai era tardi, ed ecco forse spiegata la sensazione. Cercò qualcosa su quella pila di scatoloni che le faceva da comodino, con la mano aperta e la grazia di un pugile dilettante dopo un incontro truccato, senza trovarlo. Una volta in piedi l’assenza di uno specchio le impedì di trasalire di fronte ai suoi capelli, quel nido di filo spinato spuntato che non aveva mai covato una sola idea buona. Meglio così. Camminò sulle assi di legno umidiccio del pavimento, passò oltre il divano che le parve leggermente più voluminoso, raggiunse la cucina solo dopo aver sbattuto la spalla destra contro lo stipite della porta. Aprì il frigorifero, estrasse un solitario vasetto di yoghurt al platano la cui assenza decretò il vuoto sul ripiano, lo sbucciò, leccò avidamente il residuo addensato sotto la carta argentata. Il cassetto delle posate non conteneva alcun cucchiaino che avrebbe superato un test igienico. Provò a berlo, con lo stesso movimento che conosceva perfettamente se applicato al vetro della birra d’alce, ma considerò un imperdonabile affronto la viscosa ostilità con cui il fluido si attardava nel raggiungere la sua bocca divaricata. Scagliò il barattolo in una direzione fra le tante.

“I miei occhiali, dove cazzo sono i miei occhiali…”, si domandò ad alta voce ignorando qualsiasi aspetto della risposta. Poi fu come un pugno in faccia, una zaffata nauseabonda quasi le ferì le narici senza annunciarsi. Intuì potesse trattarsi del suo alito, se ne assicurò infilando un campione del suo fiato dentro la conca delle mani, e… sì, il corposo prodotto della decomposizione di qualcosa un tempo vivo si rafforzava ad ogni respiro. Il bagno poteva essere in qualsiasi parte della casa, trovarlo avrebbe richiesto una mappa che non avrebbe comunque potuto leggere. La necessità di un chewingum al mentritolo era irrimandabile. Si ricordò potessero essere sopra il ripiano, ma aprì per errore il coperchio della zuppiera con i manici in Liocorvo che come tutte le zuppiere in tutte le cucine dell’universo non aveva mai contenuto una zuppa. Proprio quella zuppiera su cui un saggio post it fluorescente ignorato con cieca noncuranza indicava “aprimi solo se mi vedi”. I preziosi fagioli rotolanti, quantificabili solo con l’imprecisione delle manciate, uscirono ordinatamente e discesero lungo i fianchi della credenza fino a formare un’organica legione davanti ai suoi piedi.

“Gli occhiali, accidenti, gli occhiali, devo trovare gli occhiali…”, si disse, sempre ad alta voce e sempre più certa di non avere alcuna idea di dove potessero trovarsi. I fagioli ormai erano azionati, sarebbe stato sciocco resistere alla pigrizia e così un semplice passo in avanti fu abbastanza per ritrovarsi più alta di ben due centimetri in altezza e sollevata dalla fine della preoccupazione per gli spostamenti. Rotolando verso l’uscita della cucina i fagioli incontrarono una chiazza di yoghurt al platano, e non c’è bisogno di spiegare come momento volvente ed attrito funzionino. Si ritrovò senza sapere come con la faccia adesa al portello del frigo e lo sguardo puntato su un foglietto a quadretti fermato a monte da una calamita a forma di zanzara. La calligrafia sgarbata e ossuta le ricordava che quell’uomo misterioso sarebbe attraccato da lì a poco. Un giovanotto che indossava abiti che non erano stati la pelle di un animale non era di certo passato inosservato al suo informatore turistico dall’altra parte della palude.

Non c’era da tempo da perdere, la perdita degli occhiali era già stata abbastanza. Il porto, doveva raggiungere il porto. Rotolò in salotto, fissò compiaciuta il poster di Ivana Spagna, una cantante italiana dimenticata dal cognome fuorviante, convinta di specchiarsi. Soddisfatta del volume della sua acconciatura stava ancora sorridendo quando l’eco di uno sparo in lontananza unificò l’acquitrino nel democratico silenzio che segue i rumori di quella natura. Il boato svegliò il divano che cambiò forma, si divise in due parti di cui una rimase educatamente al suo posto mentre l’altra si avvicinò bassa e scura oscillando l’estremità posteriore. Una massa mobile delle dimensioni di un grosso cane si accostò fino a inumidirle le ginocchia scoperte con una piccola massa delle dimensioni di una lingua.

“E tu da dove diavolo arrivi? Ma soprattutto, hai mica visto i miei occhiali?”

2015-01-19 - #Bosforo